Una fotografia rilessiva
Fra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, in un periodo di particolare effervescenza per le arti visive, e non solo, per la Fotografia si era aperto uno scenario completamente insolito: stava entrando nel mondo dell’Arte d’avanguardia con opere che per la prima volta vedevano questo medium
protagonista di un nuovo impiego linguistico, di una nuova espressività, oltrepassando quei confini entro i quali si era mosso fino ad allora.
Siamo di fronte al fenomeno dell’espansione di ricerche di artisti che si valgono della Fotografia (artisti/fotografi) o di fotografi che si tolgono dal contesto classico della loro categoria e professione per portarsi nel campo delle arti visive
(fotografi/artisti).
Nasce così un panorama nuovo di autori e opere e una nuova considerazione di questo mezzo espressivo, il più delle volte
utilizzato in bianco nero.
I curatori, i critici, i galleristi, e quindi anche il mercato, si aprono finalmente alla Fotografia “sdoganata”, ormai, anche da mostre fondamentali come “Combattimento per un’immagine” di Daniela Palazzoli a Torino, e “Contemporanea” di Achille Bonito Oliva e Daniela Palazzoli a Roma, ambedue del 1973.
In questo contesto nascono i primi lavori di Sergio Scabar che, in sintonia con il particolare momento, comincia a utilizzare la Fotografia con il suo personale modo di sentire. È il 1969
quando partecipa a un importante concorso nazionale,
aggiudicandosi uno dei premi con un lavoro che verrà esposto nel Palazzo comunale di Fermo, e che diventerà anche, in seguito, la copertina del catalogo della mostra.
Un’opera che affronta l’emergente tema della droga con un linguaggio nuovo e attualissimo per quei tempi, in linea con
autori americani d’avanguardia.
Comincia a questo punto una fase creativa in cui il nostro autore si concentra su un uso analitico-descrittivo del mezzo
fotografico realizzando non singole opere autonome, ma
foto-sequenze dal sapore quasi filmico, che vanno lette facendo
scorrere gli occhi lungo strisce che legano un’immagine all’altra ricavando anche una sensazione temporale delle riprese
effettuate. Un caso emblematico di lavori fotografici di questo tipo lo ritroviamo in “Every building on the Sunset Strip” di Edward Ruscha del 1966, ma volendo andare ancora più indietro nel tempo si può anche pensare alle incisioni che rappresentano tutti i palazzi di Canal Grande realizzate da Dionisio Moretti e fatte poi stampare in un’unica opera da Antonio Quadri nel 1828, a Venezia.
Le immagini di Scabar, comunque, si porgono a noi sia con spirito asettico e distaccatamente descrittivo, sia con intento
interpretativo, se non altro per la scelta del “momento decisivo”
bressoniano, anche se prevale una neutra e ripetitiva
impostazione prospettica.
A questo genere appartengono due lavori, il primo intitolato “Persuasione consumistica” del 1973, in cui si alternano, in striscia, immagini a colori di manifesti pubblicitari, con immagini in bianco nero di gente in strada, di “consumatori” e di insegne di negozi, scelti come simboli del sistema pubblicitario-
consumistico che diventa palese oggetto di critica. La sequenza termina poi con un manifesto politico che pone interrogativi al fruitore dell’opera.
Il secondo del 1975, invece, prende in esame una strada di Trieste, via della Madonnina, scomposta in trentadue immagini in sequenza, dove il paesaggio urbano viene “spezzettato” e
riproposto per essere riletto con altra considerazione rispetto allo sguardo distratto e superficiale del classico passante. Si esalta la fissità della Fotografia e la si valorizza attraverso l’utilizzo di un siparietto in tessuto nero che ci obbliga a una interazione con l’opera. Scoprire l’immagine assume quindi un doppio significato: letterale e traslato.
Altro sapore hanno due lavori di tipo reportagistico: “Gente che passa”, realizzato a Venezia nel 1973 e “Impressioni londinesi”,
realizzato nella capitale inglese nel 1974.
Qui ancora una volta Scabar piega lo stile classico del genere Reportage alla sua particolare sensibilità. Ne nasce un modo di mettere in sequenza una serie di immagini molto seriale nel caso
di Venezia, in cui l’inquadratura resta fissa e i passanti nel
vicolo scorrono davanti all’obiettivo. Nel caso di Londra, invece, le inquadrature variano, attente a cogliere elementi caratteristici e grafici della metropoli, abilmente “rubati” (come i bravi reporters sanno fare) senza che le persone inquadrate siano consapevoli di essere riprese. A questo si aggiunge anche un’attenzione per
l’ambiente architettonico urbano, descritto con un bianco nero severo.
A questo punto, nel 1976, la produzione artistica di Scabar prende una strada nuova: diventa più concettuale concentrandosi sul valore del “taglio” in Fotografia, e di nuovo il vocabolo taglio assume una doppia valenza: taglio come inquadratura nel
momento della ripresa e taglio come ritaglio materiale, a
posteriori, della stampa fotografica. Nascono così “Principi per una Fotografia” e “Ritratto” nei quali si evidenzia materialmente la porzione privilegiata dell’immagine, il “cuore” dell’immagine, e ciò che invece è stato tagliato via, cioè scartato. Ma lo “scarto”, anziché finire nel cestino, viene riconsiderato e valorizzato perché riproposto al fruitore o all’interno di buste in plastica
trasparente, assieme all’inquadratura estrapolata dal contesto, o perché montato su carta e paradossalmente riqualificato come soggetto primario, tanto che le figure umane appaiono private del loro volto e quindi si caricano di affascinante mistero.
Gli anni Ottanta vedono una produzione artistica intensa e rinnovata. Il nostro artista si concentra soprattutto sull’aspetto materico dei soggetti indagati sia in bianco nero, sia a colori. Ma questa tematica si arricchisce anche di una notevole creatività
nella ricerca di formati al di fuori dei monotoni standard
rettangolari suggeriti dal mercato delle carte sensibili. Nascono così forme geometriche come il quadrato, il cerchio, il cerchio
inserito in un quadrato, il trapezio, il trapezio con un cerchio al suo interno e altre ancora, tutte risolte sempre in dimensioni minimali e discrete, mai prepotenti e urlanti, ma piuttosto intime e sussurrate. La ricerca continua con bianco neri quasi
impenetrabili dedicati a un telone di copertura di camion, in cui le tensioni interne dei tiranti inquadrati si trasmettono al di fuori del rettangolo fotografico grazie a tiranti in spago ancorati alla carta passe-partout.
E ancora altre opere, stampate con formati innovativi,
simulano portali sormontati da archi, dedicati a composizioni
geometriche e materiche al tempo stesso, valorizzate da luci radenti.
La serie dedicata agli “Oggetti quotidiani”, del 1986,
costituisce un’anticipazione sul cambio di modalità operativa di Scabar: finora l’artista si era mosso con riprese in esterno,
rapportandosi con ampi spazi e con la luce naturale. Ora invece, per la prima volta, inizia il suo percorso in studio che lo porterà a una sempre maggiore concentrazione sui valori tonali bassi e su un rapporto ravvicinato, quasi intimo, con gli oggetti. Davanti al suo obiettivo passano dettagli “macro”: un ombrello, una scarpa, un bottone, un tessuto, una cerniera lampo e improvvisamente scopriamo un mondo nuovo, che era sfuggito al nostro sguardo quotidiano e frettoloso.
Un discorso a parte merita la serie a colori sugli stracci,
realizzata fra la fine del 1980 e i primi mesi del 1981. Questi tessuti particolarmente grezzi e assorbenti, in alcuni casi garza di cotone detta tarlatana, sono stati scelti e prelevati dall’ambiente
Tipografia e sono sporchi di colore perché utilizzati per pulire lastre o cliches, quindi sono forieri di tracce di stampa, di
messaggi e di figure, non semplicemente “sporchi”! La loro
particolare matericità li rende idonei ad assumere affascinanti forme scultoree che l’obiettivo di Scabar fissa per sempre
portandoli alla nostra attenzione, prima che vengano gettati o distrutti. Una gloria effimera, complice la sua Fotografia.
Il dialogo con gli oggetti prosegue con una serie di Still Life, sempre nello stesso periodo, a volte incorniciati con i residui di pellicole Polaroid, destinati a essere buttati: di nuovo un recupero e una valorizzazione di materiali di scarto che contengono,
invece, notevoli qualità estetiche e materiche.
Il 1990 si apre con due novità. La prima è una serie dedicata al mare, interpretata con cupi bianco neri in cui si intravedono appena increspature, vibrazioni e brillii dell’acqua marina. E qui
di nuovo Scabar ci stupisce con la sua creatività anti-standard e
mette in campo tagli e spaccature delle immagini, tracce bianche di abrasioni che interagiscono con la superficie scura
dell’emulsione, un certo spessore della stampa che le conferisce quasi una terza dimensione e, per finire, perimetri irregolarmente frastagliati. Ogni stampa è quindi un pezzo unico e irripetibile, caratteristica che diverrà costante nel suo operare.
La seconda novità consiste in un’opera dedicata a Terra, Acqua e Aria, elementi resi con una serie di dettagli a colori e montati in una dinamica sequenza che funziona nel suo insieme.
Nel 1990 Sergio Scabar realizza uno dei più originali e
sorprendenti suoi lavori. Si tratta di un’opera complessa che
supera il concetto di pura e semplice Fotografia e si colloca nel campo del collage polimaterico (e naturalmente la Fotografia ne fa parte), dell’Assemblage, del Fotomontaggio e altro ancora,
difficile da etichettare ma piacevolissimo da scrutare e scoprire. All’interno di custodie di plastica rigida trasparente (utilizzate abitualmente per i CD) vengono inserite delle minuscole
composizioni create con mini fotografie, abbinate con gusto Dada/concettuale a minuscoli oggetti o frammenti materici: uno stecchino che si rapporta con un palo, una nuvola che dialoga con un tronco, una piccola piuma bianca che vola su una porzione di bosco fotografato, mini frammenti di garza, di specchio, di
ruggine abbinati a immagini materiche; alle volte le fotografie sono attraversate, forate o tenute in sospensione da fili sottili.
Insomma un variegato campionario di invenzioni delicate e
cariche di messaggi, che ci costringono a sostare con lo sguardo e a meditare, piacevolmente presi e sorpresi dalla bellezza di queste teche che, seppur moderne, fanno pensare ad antichi reliquiari con un sapore di sacralità.
Qualcosa di veramente unico nel panorama della Fotografia
contemporanea.
E veniamo ora alla tematica della Natura Morta che dal 1991 in poi è diventata l’asse portante della produzione artistica di
Scabar. Quella che inizialmente è stata intitolata come “Il teatro delle cose”, oggetto anche di numerose mostre e pubblicazioni.
C’è anche da dire, che nel frattempo, Scabar ha messo a punto una particolare tecnica di ripresa e stampa “alchemica” che gli consente di ottenere, sempre in esemplari unici e irripetibili, dei risultati molto particolari in termini di tonalità opache bruno scure, nell’area cromatica fra il testa di moro e il nero, che sono diventati il suo inconfondibile segno distintivo e che non hanno eguali nel panorama della stampa fotografica fine art. Questa
scelta tonale si sposa perfettamente con la sua filosofia del
“silenzio di luce”, una definizione da lui coniata per significare la condizione di tenue illuminazione (barlume di luce) dei suoi Still Life.
Gli oggetti che l’artista dispone con attenzione, direi
quasi amore, di fronte alla fotocamera possono essere singoli o in coppia, quando lo spirito dell’opera tende a un minimalismo Zen, oppure composti in gruppo quando l’atmosfera tende a ricordare la Natura Morta di tradizione pittorica. Possiamo raggrupparli in grandi famiglie: sono oggetti semplici, ma sempre carichi di storia, di tracce d’usura, di fascino materico, mai nuovi
fiammanti. Appartengono all’utensileria da cucina, al mondo di arti e mestieri, agli strumenti del fotografo d’altri tempi, alla
grande famiglia della stampa e dei libri antichi; una serie
alquanto recente, del 2017, è dedicata tutta a vegetali e ortaggi. Le bottiglie e gli oggetti in vetro, per la loro particolare reattività alla luce, anche se fioca, sono fra i soggetti preferiti, ma in generale
sono la forma e il contorno degli oggetti a imporsi per la
semplice e lineare eleganza messa in bella copia, che stupisce e incanta ancor più perché troppo spesso trascurata dal nostro sguardo.
Oltre allo studio della Natura Morta, Scabar si è dedicato, nel 2004, a riprese di Paesaggi. Anche in questo caso il suo stile interpretativo si toglie da mode o correnti e si distingue per la sua unicità. Si concentra su come la luce interagisce con materie primarie: acqua, aria, terra, pietra, legno e, naturalmente, la
condizione luminosa si fa scarsa, buia, lo sguardo deve
lentamente penetrare nella profondità dello spazio fra rami e zone buie.
Il Paesaggio non si offre al nostro sguardo a prima vista, ma va conquistato con un’osservazione intensa e lenta.
I titoli dei vari cicli di lavoro trasmettono perfettamente il senso della sua poetica: “Teatro delle cose”, “Soffio di luce”,
“Silenzio di luce”, “Il silenzio delle cose”, “Oscurità silente”.
Proprio a proposito di questi lavori, in occasione di una sua
mostra alla Galleria Spazzapan nel 2004, ebbi a scrivere:
«L’apparente severità può ingannare: si tratta di una Fotografia essenziale, coerente e rigorosa sì, ma animata, nel buio, dal
desiderio di cercare chiarezza e di misurarsi con scommesse
sempre nuove. Una fotografia praticata usando la luce con
parsimonia e abilità non per mostrare o dimostrare, ma per
suggerire, per lasciare immaginare».
In conclusione possiamo affermare che tutto il lavoro di
Scabar è segnato da un grande rigore e da un uso molto meditato del mezzo Fotografia. Questa intensità e questa serietà riverbera poi anche su chi osserva i suoi lavori e si ritrova a coniugare il piacere del guardare con la pratica del riflettere.
“Oscura Camera” , mostra antologica, Palazzo Attems Petzenstein, Gorizia, 2019