In margine a “Interno di un interno di un ospedale psichiatrico”
“Interno di un interno di un ospedale psichiatrico”
documenta, di primo acchito, l’incontro di Sergio Scabar con la realtà dei degenti dell’ospedale psichiatrico di Gorizia in anni immediatamente precedenti alla Legge Basaglia.1 L’occasione per entrare nell’istituto goriziano si presentò nel 1976 quando un
amico infermiere lo invitò a partecipare alla festa natalizia. Allora, tra il personale ospedaliero, doveva essere ancora vivo il ricordo di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin che a Gorizia nel 1968 avevano realizzato parte della documentazione fotografica per il libro Morire di classe;2 e vivo doveva essere pure il ricordo del
documentario I giardini di Abele girato sempre nel manicomio goriziano e sempre nel 1968 da Sergio Zavoli.3 Fotografi e
giornalista avevano operato in stretto contatto con i coniugi
Basaglia, Franco e Franca, che erano ben consapevoli
dell’importanza della comunicazione visiva per la riforma
dell’istituto psichiatrico italiano.
Scabar si presentò all’appuntamento con la macchina
fotografica, una Pentax munita di un obiettivo grandangolare da 35 mm, che poteva offrire alle immagini plasticità e profondità di campo. Le 50 fotografie sviluppate in bianco nero e in piccole dimensioni si prestano a formare un unico piano-sequenza
d’impianto cinematografico – e la memoria corre al finale di
Professione reporter di Michelangelo Antonioni –, dove l’unità di luogo e azione e la ripresa in soggettiva favoriscono
l’immedesimazione dello spettatore, lo invitano a calarsi in quell’interno di un interno, a percorrere il lungo corridoio e varcare la soglia del salone illuminato a festa. Qui lo sguardo si apre,
abbraccia i pazienti, gli infermieri, i parenti in visita, le coppie strette nel ballo o le persone sedute ai tavoli e lungo le pareti.
Certo, si potrebbero persino identificare i singoli, come l’amico infermiere seduto al tabellone della tombola o Angelo, col suo cappellone, ritto in mezzo alla sala e famoso per il suo caffé al tabacco. Ma l’intento di Scabar non è aneddotico, non cerca il “matto che fa notizia” né vi è più l’urgenza di denunciare la
natura repressiva dell’istituto asilare. Scabar coglie invece
l’insieme delle persone, il gruppo, la comunità, quella terapeutica, basagliana. E non può documentare questa realtà se non in modo spoglio, antiretorico, scevro di qualsiasi sovrastruttura per usare una terminologia dell’epoca, senza però rinunciare al proprio coinvolgimento emotivo. «Ma ora è necessario – scrivevano nella prefazione di Morire di classe i coniugi Basaglia – che l’esterno riconosca come proprio l’ospedale psichiatrico, dimostrando un legame e un interesse reciproco fra l’istituzione che riabilita e la società che vuole i suoi membri riabilitati; instaurando cioè una comunicazione reale che non può fondarsi che sulla reciprocità di interessi dei due poli della relazione.»4
Anche dalla festa il fotografo si accomiata con grande garbo, si sposta lentamente all’esterno per volgere un’ultima volta lo sguardo verso il salone. La sequenza narrativa si chiude con uno scatto, a otturatore chiuso, completamente nero. Qui, Scabar, trascende il riferimento mimetico alla notte, trascende il valore documentario della fotografia e si apre verso una dimensione poetica, fortemente introspettiva. Quello scatto nero è a tutti gli effetti un autoritratto a occhi chiusi. Non a caso due anni dopo nascerà la serie Autoanalisi. Opera schiettamente concettuale, da considerarsi miliare nel percorso artistico scabariano non fosse altro per il soggetto, più unico che raro, dell’autoritratto, che
rivela un rapporto vitale con il mondo della psichiatria nella
serialità dell’immagine, da leggere in contiguità con le foto
segnaletiche degli internati, ma anche per gli interrogativi che questi autoritratti manipolati pongono sull’identità della persona che si manifesta nella forma più compiuta proprio nel volto.
«Senza sintassi non esiste emozione duratura. L’immortalità è una funzione dei grammatici» ebbe a scrivere Fernando Pessoa nell’incompiuto Libro dell’inquietudine. E lo spazio vuoto, come la pausa in uno spartito musicale, è un elemento germinante della poetica scabariana già a queste date, sin dai brani di una vita
appartata e in apparenza misera di Interno di un interno di un
ospedale psichiatrico. Si ponga allora attenzione alle pause
generate dalle piastrelle bianche del pavimento, ma soprattutto alla sequenza delle quattro foto che ritraggono le persone attorno al tavolo. Quattro scatti tutti imperniati sulla trasparenza di una bottiglia vuota appoggiata sulla superficie spoglia di un lucido tavolo bianco.
1 Il tema dell’emarginazione sociale e della malattia non era nuovo per il fotografo. Vi aveva già lavorato con Placet experiri presentato in concorso e premiato al Festival del reportage e del racconto fotografico di Fermo nel 1969.
2 Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, a cura di F. e F. Basaglia, Torino, Einaudi, 1969.
3 Il documentario sarà trasmesso per la prima volta su Rai 1 il 3 gennaio 1969.
4 Sui fotografi che si avvicinarono all’ospedale psichiatrico di Trieste al tempo della direzione Basaglia vd.: Trieste dei manicomi. Antologia precaria di un cambiamento epocale: diciannove fotografi raccontano, Trieste, Cultura viva, 1998; si vd. anche: G.
Butturini, Tu interni… io libero: dibattito fotografico assieme a Franco Basaglia e la sua equipe attraverso la distruzione dell’ospedale psichiatrico di Trieste, Verona, Bellomi, 1977. Il ciclo di Sergio Scabar è stato pubblicato solo di recente: Sergio Scabar. Quello che rimane, a cura di S. Occhipinti e M. Faganel,
Gorizia, studiofaganel, 2018.
“Oscura Camera” , mostra antologica, Palazzo Attems Petzenstein, Gorizia, 2019